.: sangue & merda
di piko! (del 16/09/2007 @ 13:12:43, in _muy felìz :., linkato 1729 volte)
atto primo: la notte.
l'altra notte le pecore non sono rientrate.
questa estate hanno pernottato spesso fuori dalla stalla, sulla collina, all'aperto.
l'altra notte sono state aggredite da un gruppo di cani. le pecore scappano in maniera casuale, non ragionano sulla giusta direzione da seguire. si sono buttate da una piccola scarpata verso il laghetto: la pecora nera miracolosamente ha raggiunto a nuoto l'altra riva, il montone e la pecora più giovane e bella del gruppo si sono invece attardati. i cani abbaiavano, zio pietro non ha dormito granchè. uscito fuori di casa, accesa la luce, il gruppo di cani randagi si è dileguato, per poi tornare e scomparire di nuovo.

atto secondo: la mattina.
al conteggio mancavano il montone e la pecora giovane. erano ancora nella scarpata, in riva al laghetto, tra i rovi. zio pietro non è più agile come una volta, ma prima di chiamare i soccorsi ha pensato bene di farsi strada a colpi di macete tra la vegetazione. il montone, imbragato, è risalito poi sulle proprie zampe: ferito solo alla coda, non sembrava nemmeno troppo spaventato.
ma la pecorella... mancava di un pezzo di muscolo alla natica destra, un morso profondo in cui entrava un pugno. aveva poi uno strappo della pelle all'articolazione dell'anca, che le scopriva a carne viva il muscolo dell'interno coscia sinistro. portata di peso sulla stradina, non sembrava troppo grave: aveva perso poco sangue e, seppur impaurita, stava in piedi.

atto terzo: il ricovero.
il dilemma era se sopprimerla immediatamente o provare a curarla. la pecora non poteva esser macellata, perchè non si sa mai quali malattie porta un cane. ed era anche incinta, motivo in più per fare un tentativo. non voleva muoversi, restava accovacciata nel punto in cui l'avevamo fatta risalire, mosche su mosche che le ronzavano sulle ferite. le porto del granturco, suo cibo preferito, ma nulla: lo annusa soltanto.
decido allora di costruirle un ricovero a casetta con della rete attorno in modo da non far entrare le mosche. quando torno si alza di scatto per la paura e si nasconde dietro un alloro. decidiamo allora di legarla, la prendiamo con una coperta pesante da sotto la pancia, in modo da non strapparle ulteriormente la ferita, la appoggiamo distesa in una carriola e la portiamo al ricovero.

atto quarto: cure mediche.
lavo la pecora non troppo accuratamente: se il dolore non mi turbasse così tanto avrei fatto il medico di guerra, non l'ingegnere.
euclorina, acqua ossigenata e pomata. provo a tagliarle la lana, ma non faccio altro che procurarle altre ferite, perchè inevitabilmente taglio anche i brandelli di carne penzolanti. provo a bruciare la lana attorno alla ferita, ma è troppo grassa e non prende fuoco. lo squarcio non mi sembra troppo pulito, è scuro. chiudo la pecorella nel ricovero e chiamo mio padre. vista la ferita, dice che bisogna richiuderla immediatamente ed evitare che le mosche depositino uova.

atto quinto: la sutura.
faccio il giro delle farmacie: nessuno che abbia ago e filo da sutura. l'unica è andare all'ospedale e chiedere un prestito di favore, ma non è possibile. mio padre chiede a tutti i suoi amici e solo il giorno dopo otteniamo il necessario. di notte la pecora scappa, la riprende zio pietro il mattino seguente. un paio di mosche riescono ad entrare anche attraverso tre passaggi di rete fina.
decidiamo di operare. stesa sul tavolino, la pecorella si dimena. mio padre la lava con la lancia idraulica: grumi di sangue sul piano di vetro del tavolino. prende il bisturi ed alla prima incisione escono pugni di vermi bianchi, come se la carne li stesse vomitando. bagna il tutto con litri di disinfettante, i vermi continuano ad uscire dall'interno della carne, come se avessero scavato dei tunnel, invisibili perchè intrisi di sangue. sono abbastanza disgustato e decido di tenere solo la pecora per non farla muovere. mio padre con una certa dedizione elimina i vermi uno ad uno, lava e disinfetta. taglia i brandelli e la lana per ricomporre i lembi e sutura. la pelle della pecora è coriacea: l'attrezzatura chirurgica invece è per l'uomo ed è necessaria una certa veemenza per richiudere la ferita.
mi pungono anche delle zanzare, che schiaccio sul braccio in strisce di sangue. asciugo mio padre che suda, spettinato ed insanguinato com'era.
la pecora si agita per la paura ed il dolore, respira soffiando, apre e chiude gli occhi, sembra che sudi. in uno spasmo, finisce per defecare sul tavolino, proprio nella zona in cui mio padre stava operando. le narici ingrossate, le tolgo con un fazzoletto del muco che mi sembrava esser più che altro sangue. giannino aiuta mio padre a mani nude, noncurante di tutto il sangue e la merda che finisce sul banco di vetro. zio pietro scaccia le mosche e pulisce il piano grossolanamente.

atto sesto: accanimento terapeutico?
la pecorella sbuffa e prova più volte a rialzarsi ma è legata. chiedo a mio padre se era possibile anestetizzarla ma, al di là delle dosi necessarie, mi dice che non conosceva gli effetti dell'anestetico sugli animali, che avrebbe potuto ammazzarla con una puntura.
provavo un certo senso di compassione, perchè capisco in macelleria, dove gli animali son morti, ma certi schizzi di sangue non te li scordi. a vedere il filo che scorreva nella carne, e la ferita ben chiusa, ricomposta, anche il disgusto era passato.
ma quando mio padre, girando la pecora, ha deciso di passare all'altra gamba, il sentimento è mutato. a ripensarci, mi aumenta la salivazione. la pelle, staccatasi dal resto, aveva lasciato il muscolo scoperto in una intercapedine di circa quindici centimetri. all'incisione, fuoriesce forse un chilogrammo di vermi gialli, arricciati, grandi quanto cinque centesimi di euro. ho dovuto voltarmi dall'altra parte, e non so come mio padre possa avere il coraggio di restare indifferente davanti a certe cose.
mi guarda, e penso che forse non è più il caso di continuare. la pecora tremava, ogni tanto girava gli occhi verso l'alto, non sarebbe servito a granchè stare un'altra ora e mezza ad operarla. le faccio un'ultima carezza, faccio un cenno a zio pietro e gli dico che vado a prendere il trattore.

atto settimo: il delitto pecorella.
mio padre mi dice: "l'ho fatto solo per te. ci abbiamo provato, la speranza era poca".
in effetti il compito più spiacevole era toccato a lui, aveva già dato tutto quel che poteva. zio pietro mi chiede di prendere il coltellaccio, quello con cui si scannano gli animali, ma non era troppo convinto. arrivo con il trattore, la fossa l'aveva già scavata lui. gli chiedo se almeno potevamo evitare di spargere altro sangue lì sotto al porticato, davanti alla cantina.
prendo la pecora, l'adagio nella benna, la porto sotto il cachi, dietro alla fornace, dove avevamo approntato la buca. mio padre lava il tavolo operatorio, zio pietro mi segue con il coltello ma arrivati sul posto non ha il coraggio di ucciderla.
"chissà" mi dice, "forse fra tre settimane avrebbe anche partorito. aspettiamo tuo padre". la pecora è immobile e fredda nella benna, quel grumo di vermi che le brulicano nella carne nera, putrefatta. la testa schiacciata contro il metallo, mi guarda, chiudendo gli occhi lentamente. gliela sporgo sulla fossa, la giro a pancia all'aria, arriva mio padre. dice che lo farà lui, zio pietro è titubante, in fin dei conti ha ottant'anni e non ha mai ucciso un solo animale.
tutti i compiti ingrati a mio padre: le pianta il coltello nella gola e con un movimento semplice e deciso le recide l'arteria, il sangue schizza nella buca, la pecorella stramazza. alzo la benna e finisce sepolta.  all'atto ero sul trattore e fortunatamente non ho visto tutto nel dettaglio. manovro con mestizia e la ricopro con la terra mossa. il funerale è fatto, ce ne andiamo tutti in silenzio, con il dubbio che avremmo potuto farcela o che forse sarebbe stato il caso di ammazzarla subito ed evitarle queste sofferenze.

scendo al ricovero e lo smonto: puzza di sangue coagulato e varichina, merda e pecora.
puzza di morto insomma.
sento quell'odore pregnante fisso nelle narici, decido di bere un bicchierino di qualcosa di forte, che mi bruci gola e gusto per cancellare quel ricordo. lavo i guanti di mucca con sapone e varichina, faccio correre la piena nel capanno con la pompa grossa del laghetto, mio padre sterilizza gli strumenti e mi saluta. penso tra me e me se sia il caso di soffrire così.
penso allora di essere per l'accanimento terapeutico: vivere è vivere, fanculo il dolore. è quasi buio, zio pietro mi chiama. "marcolì, basta... stà a finì l'acqua del laghetto!", tutto come prima.

che forte mio padre, oh. tutti i compiti ingrati, a lui.